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30.06.05

Una storia (A Los Angeles Story)

RyCooder.jpgIl temporale di ieri sera lava via questo giugno un po' insulso, a tratti troppo veloce o troppo lento, che lascia di buono solo l'uscita dell'ultimo disco di Ry Cooder, Chàvez Ravine.
La storia che racconta è quella di Chàvez Ravine appunto, quartiere ispanico di Los Angeles dove nel 1949 il fotografo Don Normark vi capitò per caso e scattò una serie di fotografie in bianco e nero che pubblicò in un libro solo nel 1999.
Ry Cooder parte da qui e torna indietro nel tempo, raccontando di un quartiere e della gente che non c'è più.
Ascolta Cool Cats, anche la sua musica è in bianco e nero...

Posted by Peter Kowalsky at 09:07 | Comments (2)

28.06.05

Habemus commentis

Non so come, non so perché, ma pare che i commenti dopo tre mesi abbiano ripreso a funzionare. Salvo approvazione della casa...
Servitevi una Pilsner Urquell dal frigo per festeggiare!

Posted by Peter Kowalsky at 17:55 | Comments (1)

Aspettando il black out

Il mio gatto ha caldo. Come ce l'aveva in questo periodo lo scorso anno. O l'anno prima. Anche il mio cane ha caldo. Più o meno come lo scorso anno, da come ansima. Cercano l'ombra e mangiano poco. Non sembrano però molto suggestionati dal fatto che oggi sarà il giorno più caldo.
Probabilmente perché non leggono i giornali.
Noi no. Leggiamo i giornali e guardiamo i telegiornali. Il giorno più caldo. Il black out elettrico. Le città a rischio.
Il mio gatto e il mio cane se ne sbattono di tutto questo.
Fa caldo e basta. Più o meno come ogni anno in questa stagione. E più o meno come ogni anno in questa stagione i giornalisti si inventano il problema del caldo.
Accendiamo i condizionatori e spegnamo la tv.

Posted by Peter Kowalsky at 16:33 | Comments (0)

Teste di cuoio

Non li invidio, con questo caldo...

Posted by Peter Kowalsky at 11:17 | Comments (0)

14.06.05

Nero e invisibile

hamilton_naki.jpgA volte tutti i giornali raccontano contemporaneamente la stessa incredibile storia che mai prima ti era capitato di sentire.
Contemporaneamente solo perché quel giorno le agenzie di stampa hanno dato quella notizia. Poi i giornali la raccontano, tutti insieme, con sfumature diverse.
E' il caso ieri della incredibile storia di Hamilton Naki.
Chi l'ha raccontata meglio è stato Pierangelo Sapegno su La Stampa.

Hamilton Naki lascia tanti figli e moltissimi nipoti. Lascia 226 euro al mese di pensione da giardiniere, e tutti gli amici che da qualche giorno affollano la catapecchia di Langa, nei sobborghi neri di Città del Capo, dove s’era ritirato a vivere dal 1991. Lascia una bella vita, una storia incredibile, onorificenze varie e tante belle parole. Nessuna foto, invece, se non quella con il camice bianco e la cravatta scura che teneva sul tavolo, vicino ai libri appoggiati contro il muro, nella sua casupola alla periferia di Città del Capo. Hamilton Naki è morto il 29 maggio, a 78 anni: era il chirurgo autodidatta che aiutò Christian Barnard a trapiantare un cuore umano nella notte del 3 dicembre 1967, al Groote Shuur Hospital. Ma non lo seppe mai nessuno, perché era un nero e nel Sudafrica dell’apartheid un uomo di colore non poteva fare il medico. Nessuna foto lo immortalò, nessuno lo ricordò mai. «Se avessero pubblicato la mia fotografia sarebbero andati tutti in carcere», disse Hamilton una volta. Alla fine lo ricordò solo Barnard, poco prima di morire, nel 2001, quando tutto era già passato e sepolto, e Naki si faceva la sua piccola vita da giardiniere in pensione. Confessò: «Probabilmente, aveva più capacità tecniche di me». Non c’era bisogno di spiegare perché prima nessuno aveva detto niente, e perché nessuno aveva mai ammesso una volta in tutti quegli anni i meriti di Hamilton. «A quei tempi le cose andavano così», disse Naki. Andavano che un ragazzo di colore non poteva nemmeno studiare dopo la licenza media. Hamilton Naki era nato nel 1926 da una povera famiglia di Ngcangane, un piccolo villaggio dell’Eastern Cape, tra pascoli e colline affacciati sull’Oceano Indiano. Da bambino andava sempre a piedi scalzi e si riparava dal freddo coprendosi di pelli di pecora. Studiava con profitto e arrivò in fretta fin dove era concesso a uno della sua gente. A 14 anni se ne andò a cercare fortuna a Città del Capo. Trovò un lavoro da giardiniere nell’ateneo: doveva curare i prati e i campi da tennis, spazzare le foglie, tagliare l’erba e innaffiare le aiuole. Si presentava tutte le mattine prestissimo sempre impeccabile: il cappellino in testa per ripararsi dal sole, camicia immacolata, cravatta e giacchetta. Continuò per dieci anni così. Poi, finita la guerra, il National Party stravinse le elezioni del ‘48 e la segregazione razziale che fino ad allora era stata solo una gelida consuetudine divenne un sistema politico, ossessivo, onnipresente, feroce, con leggi severissime e dure. Naki continuò a fare il giardiniere all’università: puliva i parchi. Qualche anno dopo, però, nel 1954, il dottor Robert Goetz, un medico ebreo di origine tedesca che era scampato alle camere a gas naziste e che ora insegnava alla facoltà di Medicina di Città del Capo e faceva esperimenti sugli animali, gli chiese di aiutarlo. Goetz aveva bisogno di qualcuno che si occupasse delle sue cavie e non poteva fare assunzioni perché la facoltà aveva pochi fondi: Naki era il suo uomo. Una sera lo prese e gli disse: «Sei bravo. E hai buone mani. Guarda quello che faccio io e impara». Naki seguì l’esempio, cominciando il suo apprendistato di anatomia comparata. All’inizio, puliva le gabbie, rasava e pesava gli animali, ma ben presto apprese a dosare l’anestetico e a far funzionare le macchine che pompavano aria nei polmoni delle cavie, mentre il dottore operava davanti a platee di studenti. «Era difficile, ma io volevo imparare», disse Hamilton. Continuava a guardare tutto quello che facevano, a studiare e a mettere in pratica le lezioni. «Nessun’altro voleva fare quel lavoro». Di lui dicevano: «Dimostrava anche una capacità sorprendente nel riconoscere anatomie e patologie». Aveva persino degli allievi. C’era una dottoressa che se lo ricorda ancora oggi, con qualche lacrima agli occhi: «Con la pioggia e con il sole, lui era sempre lì, alle sei del mattino, tutto perfetto, in ordine, entusiasta. Con il bisturi era bravissimo». Ormai, Hamilton incideva, sezionava, ricuciva. E trapiantava organi: «Imparammo molto dai cani, sostituivamo fegati e cuori. Oppure ne ricavavamo uno assemblando le parti di due». Proprio in quel periodo rientrò dall’America Christian Barnard. Era andato negli States a imparare le nuove tecniche di intervento a cuore aperto. Aveva bisogno di un assistente per fare quello che aveva deciso di fare: il trapianto di un cuore. Scelse questo nero con la faccia paciosa, il sorriso di labbra carnose schiacciato sotto un naso da pugile. «Ci sapeva fare come nessuno», disse. Era arrivato il momento per cambiare la storia della chirurgia. Era il 1967. A Groote Schuur avevano un volontario pronto a farsi trapiantare un cuore. Si chiamava Louis Washkansky, aveva 55 anni, il diabete e una malattia cardiaca incurabile. Gli dissero: «È la prima volta. Non sappiamo se ce la faremo». Lui rispose: «A me va bene. Così non voglio più andare avanti». Sorrideva molto. Sorrise anche quella volta. Trovarono il donatore, Denise Darvall, una ragazza di 25 anni scesa dalla macchina per comprarsi una pasta e investita da un pirata. C’erano due équipe. Una guidata da Hamilton Naki compì l’espianto dal corpo della ragazza. L’altra, quella di Barnard, il trapianto. Era il 3 dicembre 1967. Washkansky morì di polmonite 18 giorni dopo. Barnard divenne il medico più famoso del mondo. Naki andò in pensione nel 1991, come giardiniere. Poi, nel 2002, gli dettero la più importante onorificenza del Sudafrica. Gli chiesero cosa ne pensava. Disse: «Erano tempi così».
Pierangelo Sapegno - La Stampa

Posted by Peter Kowalsky at 08:56 | Comments (1)

08.06.05

Quarto anno

E' cominciato il 4° anno di questo blog all'insegna del disfacimento: blackout del server per alcuni giorni, impossibilità di fare un backup degli archivi per tentare di aggiornare MT e cercare di riattivare i commenti.
Esattamente quattro anni fa, usando Blogger, tutto girava bene.
Ed ero anche felice.
Forse perché stavo partendo per Lisbona...

Posted by Peter Kowalsky at 06:56 | Comments (0)