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24.06.04

Dabliù e la decapitazione

Tornando sulla morte di Kim-il, l'ostaggio sudcoreano decapitato l'altro giorno in Iraq, Igor Man scrive oggi su La Stampa un condivisibile editoriale: In memoria di nostro fratello Kim.
Lo riporto integralmente, ne vale la pena.

In memoria di nostro fratello Kim
24 Giugno 2004
di Igor Man

La decapitazione di nostro fratello in Cristo, Kim-il, 33 anni, la sua intenzione, più volte manifestata, di farsi, lui, cristiano, missionario itinerante del Vangelo, il suo martirio annunciato segna un punto di non ritorno. L’islamismo radicale già seminato da Osama, lo Sceicco della Morte, è diventato una pianta malefica le cui radici affondano nell’odio. Osama, forse, è da tempo soltanto un cumulo d’ossa incenerite, ma i suoi cloni raccolgono la «contestazione religiosa» piantando la tenda in Iraq, il più laico dei paesi arabi. Il paese orgoglioso del suo nazionalismo baathista, in fatto nazionalsocialista, è oramai divenuto un laboratorio nei cui alambicchi senza misericordia apprendisti stregoni in turbante e argonauti in mimetica cercano il Graal. Ch’è bifronte e scompostamente sfuggevole.

I primi inseguono il miraggio d’un planetario «mondo nuovo» ricalcato sulla Medina (però computerizzata) del Profeta Maometto nel segno della condivisione; i secondi pragmaticamente cercano di inoculare negli iracheni il vaccino taumaturgico della Democrazia. Ma poiché il messaggio di Maometto è stato manipolato dai portatori (non sani) dell’essenzialismo oscurantista (giusta la lezione di Popper ripudiamo il termine «fanatismo»), è consentito prevederne la sconfitta. La Storia ci dice come mai, nell’universo islamico, la contestazione sia riuscita a mutarsi in istituzione. Sempre la Storia, tuttavia, ci dice che la democrazia non basta annunciarla ed è tremendamente difficile praticarla. E’ libera stampa e parlamento. La seconda guerra mondiale fu, eccezionalmente, «ineludibile» e come tale portatrice (sana) di libertà e rinascita, anche materiale.

Questa degli americani, in Iraq, come ha asciuttamente scritto il New York Times, «puzza». Di imbroglio, di pretestuosità. Ci sarebbe da scommettere che se la Casa Bianca avesse osato proclamare che attaccando l’Iraq, gli Stati Uniti volevano: a) vendicarsi delle Due Torri; b) mettere il cappello sulla «testa dell’acqua», il petrolio in questo caso - e una volta raggiunti codesti obiettivi dedicarsi al difficile compito di seminar democrazia in un paese tribale, in tal caso le cose sarebbero andate probabilmente in modo diverso. Non è che gli iracheni spasimassero per Bush, ma un quarto di secolo sotto la ferula mafiosa di Saddam li aveva sfiancati, due guerre, entrambe provocate dal Dittatore versipelle, li avevano ridotti in ginocchio.

Sicché accolsero con sollievo i GI vedendo in loro gli artefici hi-tech d’una possibile rinascita nazionale nel segno della distribuzione equa dei beni. Invece gli Usa si limitarono a occupare, lasciando sola di fronte al saccheggio, alla prepotenza dei camorristi, alla disperazione dei miserabili e dei delinquenti comuni amnistiati in extremis da Saddam una popolazione che altro non desiderava se non uno straccio di quiete per poter lavorare e crescere, senza angoscia, i propri figli. Il caos odierno è anche frutto della delusione popolare.

La (presunta) saldatura fra Saddam e Osama, casus belli degli Stranamore che circondano il candido texano Dabliù, poiché il destino è un regista beffardo s’è avuta dopo. Anche perché gli Usa al «dopo» non avevano pensato prima e oggi ch’è diventato presente ne pagano le conseguenze. Ma può l’Occidente giudaico-cristiano subire passivamente l’escalation della guerriglia che in nome della resistenza all’invasore neocolonialista terrorizza uomini e topi? Certamente no. Per fermare l’atroce bowling giuocato con le teste (decapitate) degli innocenti, ci vorrà tempo, pazienza e soprattutto l’umile sforzo di calarsi nel cuore e nella mente degli iracheni. E qui viene il difficile.

LA STAMPA

Posted by Peter Kowalsky at 24.06.04 15:19

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