L’idea che sta dietro all’odio per gli ebrei oggi come sempre è che essi abbiano un animo perverso che li rende inadatti e diversi. Ora l’ideologia dell’uomo inferiore si è estesa allo Stato di Israele




GERUSALEMME

NEL 1967 ero una giovane comunista, come la maggior parte dei ragazzi italiani. Stufa del mio comportamento ribelle, la mia famiglia mi mandò in un kibbutz dell'alta Galilea, Neot Mordechai. Laggiù mi sentivo piuttosto contenta: il kibbutz dava ogni mese una certa somma di denaro per sostenere la lotta dei vietcong. Quando scoppiò la guerra dei Sei Giorni, Moshe Dayan parlò alla radio per darne l'annuncio. Chiesi ai miei compagni di Neot Mordechai che cosa volessero dire le sue parole. Mi risposero: Shtuiot, sciocchezze. Durante la guerra accompagnavo i bambini nei rifugi, scavavo trincee e mi addestravo in alcune semplici operazioni di autodifesa. Continuavamo a lavorare nell'orto, ma eravamo svelti a identificare i Mig e i Mirage che si inseguivano nel cielo sopra le alture del Golan. Quando tornai in Italia, i miei compagni di scuola non mi accolsero bene: alcuni mi guardarono come se non fossi più la stessa di prima, ma un nemico, una persona malvagia che presto sarebbe diventata un'imperialista. La mia vita stava per cambiare: allora non lo sapevo ancora, perché pensavo semplicemente che Israele avesse giustamente vinto una guerra dopo essere stato assalito e aver subito un numero incredibile di provocazioni e maltrattamenti. Ma presto mi accorsi che avevo perso l'innocenza dell'ebreo buono, di quell'ebreo speciale fatto secondo i loro desideri. Ora, in quanto ebrea, ero messa insieme con gli ebrei dello Stato di Israele e lentamente, ma inesorabilmente, venivo esclusa da tutta quella nobile schiera di personaggi come Bob Dylan, Woody Allen, Isaac Bashevis Singer, Philip Roth e Sigmund Freud, che santificava il mio giudaismo agli occhi della sinistra. Ho cercato per molto tempo di riconquistare quella santificazione, e la sinistra ha cercato di ridarmela, perché gli ebrei e la sinistra hanno disperatamente bisogno gli uni dell'altra. Ma ora, dopo che l'odierno antisemitismo ha calpestato qualsiasi buona intenzione, le cose si sono fatte chiare. In tutti questi anni, anche persone che, come me, hanno firmato petizioni per il ritiro dell'esercito israeliano dal Libano, sono diventate dei «fascisti inconsapevoli», come mi ha scritto un lettore in una lettera piena di insulti. In un libro sono stata definita semplicemente «una donna appassionata che si è innamorata di Israele, confondendo Gerusalemme con Firenze». Un palestinese mi ha detto che, se io vedo le cose in modo così diverso dalla maggior parte della gente, significa che il mio cervello non funziona bene. Sono stata anche definita una persona crudele e insensibile, che nega i diritti umani e alla quale non importa nulla della vita dei bambini palestinesi. La ragione di questi e di molti altri insulti e critiche mi è stata spiegata da uno scrittore israeliano molto famoso. Un paio di mesi fa, mentre stavamo parlando al telefono, mi ha detto: «Sei davvero diventata una persona di destra». Cosa? Di destra? Io? Una vecchia femminista, attivista dei diritti umani, addirittura comunista in gioventù? Soltanto perché ho raccontato il conflitto arabo-israeliano nel modo più accurato che potevo e perché talvolta mi sono identificata con un Paese continuamente attaccato dal terrorismo? È un fatto davvero interessante. Perché nel mondo contemporaneo, il mondo dei diritti umani, se una persona viene definita di destra, è stato compiuto il primo passo verso la sua delegittimazione. Ogni ebreo nato dopo l'Olocausto impara subito un messaggio molto chiaro: il male, per gli ebrei, è quasi sempre giunto dalla destra, in particolare dalla Chiesa, almeno per una buona parte della sua storia, e, naturalmente, dal nazismo e dal fascismo. L'Olocausto ha fatto ricadere il male sulla destra. E poiché gli ebrei sono il simbolo vivente di quanto possa essere malvagia la destra, legittimano la sinistra con la loro stessa semplice esistenza. Allo stesso tempo, la sinistra ha concesso la propria benedizione agli ebrei quali vittime par excellence, alleati sempre fedeli nella lotta per i diritti dei deboli contro i più forti. Quale ricompensa per il sostegno offertogli, come la possibilità di pubblicare libri e girare film, nonché per la reputazione di artisti, intellettuali e giudici morali che gli veniva riconosciuta, gli ebrei, persino durante le persecuzioni antisemite dell'Unione Sovietica, hanno dato alla sinistra il proprio appoggio morale, invitandola a unirsi a loro nel pianto di fronte ai monumenti dell'Olocausto. Oggi il gioco è inequivocabilmente finito. La sinistra si è dimostrata la vera culla dell'attuale antisemitismo. Quando parlo di antisemitismo, non mi riferisco alle legittime critiche rivolte contro lo Stato di Israele, bensì all'antisemitismo puro e semplice, talvolta accompagnato anche da critiche: criminalizzazione, stereotipi e menzogne specifiche o generiche, che da menzogne sugli ebrei (cospiratori, assetati di sangue, dominatori del mondo) hanno ampliato il loro raggio e sono diventate menzogne su Israele (Stato cospiratore e sfrenatamente violento), in modo addirittura brutale soprattutto a partire dalla seconda Intifada, nel settembre del 2000, e assumendo una ferocia sempre maggiore dall'inizio dell'operazione Chomat Magen, «Muro difensivo», quando l'esercito israeliano è rientrato nelle città palestinesi per rispondere agli attacchi terroristici. L'idea fondamentale dell'antisemitismo, oggi come sempre, è che gli ebrei abbiano un animo perverso che li rende diversi e inadatti, in quanto popolo moralmente inferiore, a diventare membri regolari della famiglia umana. Ora questa ideologia dell'Untermensch si è estesa a Israele in quanto Stato ebraico: un'entità straniera, separata, diversa, fondamentalmente malvagia, la cui esistenza nazionale viene lentamente ma inesorabilmente svuotata di significato e privata di giustificazione. Israele, proprio come il classico ebreo cattivo, non ha, secondo l'antisemitismo contemporaneo, diritto di nascita, ma è macchiato da un «peccato originale» commesso contro i palestinesi. La sua eroica storia è stata rovesciata e trasformata in una storia di arroganza. Sulle prime pagine dei giornali europei abbiamo visto vignette che, ripetendo i classici stereotipi antisemiti, mostrano Sharon mentre divora bambini palestinesi e i soldati israeliani impegnati a minacciare culle di piccoli Gesù. Tutto questo nuovo antisemitismo, che si è materializzato sotto forma di una violenza fisica senza precedenti contro persone e simboli ebraici, nasce nel seno di organizzazioni che si dedicano ufficialmente alla salvaguardia dei diritti umani, e ha raggiunto il proprio apice nel summit delle Nazioni Unite tenuto recentemente a Durban, quando l'antisemitismo è ufficialmente diventato lo stendardo della nuova religione secolare del nostro tempo, la religione dei diritti umani, facendo così di Israele e degli ebrei il suo nemico dichiarato. Ma gli ebrei e in generale la comunità internazionale sono stati presi del tutto di sorpresa e non hanno denunciato la nuova ondata di antisemitismo. Nessuno si scandalizza se Israele viene ogni giorno accusato, senza alcun motivo, di eccessiva violenza, di atrocità e di crudeltà. Ognuno è tormentato e turbato per la necessità di sferrare dolorosi attacchi contro i covi dei terroristi, spesso nascosti in mezzo a famiglie e bambini. Tuttavia, ogni Paese ha il diritto di difendersi. Nel corso della storia, soltanto agli ebrei è stato negato questo diritto, e così avviene ancora oggi. Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello di Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela sia l'identità dei suoi sostenitori sia il suo vero obiettivo. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa su cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, viene immediatamente rimproverato: come osi essere un ebreo diverso da come ti ho ordinato? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo? E qui la risposta degli ebrei e degli israeliani è sempre la stessa: siamo ancora molto timidi, molto desiderosi del vostro affetto. Perciò, invece di pretendere che Israele sia riconosciuta una nazione come tutte le altre e che gli ebrei diventino cittadini di pari gradi in tutto il mondo, preferiamo stare al vostro fianco, persino quando tirate fuori centinaia e centinaia di affermazioni antisemite. Preferiamo restare vicini a voi davanti a un monumento eretto in memoria dell'Olocausto, ascoltandovi deprecare il vecchio antisemitismo, mentre accusate Israele, e perciò gli ebrei, di essere dei killer razzisti. Come giornalista, non posso passare sotto silenzio il grande aiuto dato dai mass media a questo nuovo antisemitismo. Fin dall'inizio dell'Intifada noi, giornalisti combattenti per la libertà cresciuti nei campi del Che Guevara e dei fedayin, abbiamo dato del conflitto israelo-palestinese un resoconto che è senza dubbio il più sbilanciato e prevenuto che si sia mai visto in tutta la storia del giornalismo. Ecco i principali fattori che rendono distorta l'informazione sull'Intifada: 1) Mancanza di profondità storica nell'attribuzione delle responsabilità del suo scoppio: in altre parole, l'incapacità di raccontare in modo adeguato la storia dell'offerta israeliana per uno Stato palestinese e del rifiuto di Arafat che, in sostanza, non è altro che il rifiuto di accettare l'esistenza di Israele come Stato ebraico, e si inserisce nella scia di ormai quasi settant'anni di rifiuti arabi alla ripartizione del territorio di Israele tra arabi ed ebrei, come consigliato dagli inglesi nel 1936, deciso dalle Nazioni Unite nel 1947 e sempre accettato dai rappresentanti ebrei. 2) Incapacità, fin dai primi scontri ai check point, di stabilire la responsabilità delle prime morti in conseguenza del fatto che, a differenza della prima Intifada, nella seconda l'esercito israeliano ha dovuto affrontare combattenti armati nascosti in mezzo a una folla disarmata.
3) Incapacità di riconoscere l'enorme influenza delle pressioni culturali esercitate sui palestinesi, a partire dal sistematico indottrinamento condotto dalle scuole e dai mass media palestinesi, con lo scopo di denigrare gli ebrei e gli israeliani e di idealizzare i più brutali atti terroristici. 4) La piatta descrizione della morte dei bambini palestinesi senza soffermarsi in alcun modo sulle circostanze in cui è avvenuta. L'equiparazione tra le vittime civili israeliane e palestinesi, come se il terrorismo e la guerra che lo combatte fossero la stessa cosa, e come se le uccisioni mirate equivalessero a una deplorevole e triste conseguenza di un nuovo e difficile genere di lotta. 5) L'uso delle fonti palestinesi per verificare la realtà dei fatti, come se le fonti palestinesi fossero le più affidabili. Sto pensando a Jenin, ai resoconti non confermati di episodi che sono passati sulla carta stampata o alla televisione come verità assoluta. Al contrario, le fonti israeliane, che sono molto spesso affidabili per la presenza nel Paese di un giornalismo aggressivo, libero e aperto, nonché per l'altrettanto determinata battaglia contro le politiche del governo cambattuta dai partiti d'opposizione, dagli obiettori di coscienza, dai commentatori televisivi e dai giornalisti, sono considerate servili, piene di pregiudizi e non degne di attenzione. 6) La manipolazione dell'ordine in cui vengono date le notizie, e la manipolazione delle stesse notizie. I titoli forniscono il numero dei palestinesi uccisi o feriti e la maggior parte degli articoli, almeno in Europa, prima di raccontare gli scontri a fuoco e le loro cause, si dilungano sull'età e la storia famigliare dei terroristi. Motivazioni e scopi delle azioni condotte dall'esercito israeliano, come quella di catturare i terroristi, distruggere le fabbriche d'armi, i nascondigli e le basi d'attacco contro Israele, sono raramente menzionati. Al contrario, le operazioni israeliane sono spesso presentate come del tutto superflue, strane, crudeli e inutili. 7) La manipolazione del linguaggio, sfruttando il vantaggio della grande confusione che regna circa la definizione dei concetti di «terrorismo» e «terrorista». Anche questa è una vecchia questione, legata alla nozione di combattente per la libertà, così cara alla mia generazione. Tempo fa, stavo facendo alcune interviste presso un check point. Mi è stato presto chiaro che l'uso della parola «terrorista» suonava nelle orecchie di tutti i miei interlocutori palestinesi come un peccato politico e semantico di capitale gravità. La stampa lo sa benissimo: l'occupazione è la causa di tutto, il terrorismo è chiamato resistenza e, in se stesso, non esiste affatto. I terroristi che uccidono donne e bambini sono chiamati militanti o combattenti. Un atto di terrorismo è spesso definito uno «scontro a fuoco», anche quando si tratta soltanto di bambini e vecchie signore freddate a colpi di mitra dentro la loro macchina su un'autostrada. È pure interessante notare che un giovane shahid è motivo di profondo orgoglio per la lotta palestinese, ma se domandate come si fa a mandare a morire un bambino di dodici anni o per quale motivo questi ragazzini vengono indottrinati a compiere simili atti, la risposta è: «Ma andiamo, un bambino non può essere un terrorista. Come può un ragazzino di dodici anni essere un terrorista?». Questo è probabilmente il punto fondamentale: dato che è in atto un dibattito infuocato sulla definizione di terrorismo, si accetta comunemente che il terrorismo sia un modo di combattere. Questo è un regalo semantico e anche materiale del nuovo antisemitismo, secondo il quale è naturale che un ebreo sia morto. Detto più precisamente, la scelta intenzionale di obiettivi civili allo scopo di innescare la paura e distruggere il morale del nemico non viene considerato un peccato morale nei confronti di Israele. Non scatena l'indignazione del mondo, e anche quando lo fa, nasconde tra le sue pieghe una certa simpatia per gli aggressori terroristi. 8) Infine, i media hanno diffuso il davvero stravagante concetto che i coloni, donne e bambini compresi, non siano dei veri e propri esseri umani. Sono presentati come delle pedine in un gioco pericoloso, al quale hanno volontariamente scelto di partecipare. La loro morte è un fatto praticamente naturale e del tutto logico. In un certo senso, se la sono voluta. Al contrario, quando viene ucciso un comandante di Hamas, sebbene pure lui, ovviamente, «se la sia voluta», si apre un dibattito morale e filosofico per condannare la perfidia con cui si eseguono sommarie condanne a morte. Sarebbe un dibattito certamente legittimo, se non fosse per uno scandaloso uso dei due pesi e delle due misure da parte della stampa mondiale. 9) Infine, non bisogna dimenticare che non si parla quasi mai della censura e della corruzione che regna all'interno dell'Autorità palestinese, così come dell'eliminazione fisica dei suoi nemici politici. Se vogliamo ottenere qualcosa, se decidiamo che è giunto il momento di combattere, dobbiamo sbarazzarci delle imposture e degli inganni del politicamente corretto. Dobbiamo saper dire che la libera stampa fallisce la sua missione quando mente, e che sta effettivamente mentendo. Dobbiamo dire che tutti i diritti umani sono violati quando a un popolo è negato il diritto all'autodifesa, e che questo diritto a Israele è effettivamente negato.
* La versione integrale di questo articolo, di cui pubblichiamo ampi stralci, compare sul numero di Liberal in edicola.

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